Rivista quadrimestrale interdisciplinare
fondata nel 1989
GIANO. PACE AMBIENTE PROBLEMI GLOBALI
 
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Articolo pubblicato sul numero 37 di Giano. Pace ambiente problemi globali, gennaio-aprile 2001

UNA MINORANZA AL POTERE, UN’OPPOSIZIONE IN CRISI, UN’ALTERNATIVA DA COSTRUIRE



Nonostante la messa in opera di una campagna propagandistica martellante e dispendiosa, nelle recenti elezioni politiche italiane il "Polo delle Libertà" non è riuscito ad andare al di là del 44,7% dei voti, e non raggiunge il 50% neppure con l’aggiunta della Lega e del Nuovo Psi (i dati sono tratti dal "Corriere della sera" del 18 maggio); in particolare, Forza Italia, la neoformazione personale del più ricco degli italiani, non ha conquistato che il 29,4% dei suffragi. Meno di un italiano su tre, dunque, ha creduto nelle lusinghe e negli inganni dell’apparato di potere finanziario e mediatico di Berlusconi. Una buona parte del maggior numero di voti (8,8%) che Forza Italia ha riportato rispetto al 1996 è stato drenato alle formazioni satelliti (An –3,7%, Ccd–Cdu –2,6%, Lega Nord –6,2%) i cui voti si sono dispersi anche in altre direzioni. C’è stata – creata dalla imponenza d’una spesa comunque inferiore al presumibile importo dell’evasione fiscale confessata dal "cavaliere" – un’atmosfera plebiscitaria; ma non c’è stato il plebiscito. Se è vero che si trattava di votare pro o contro di lui, la maggioranza ha votato contro, o non l’ha votato.
Come questi risultati si siano trasformati in una netta maggioranza assoluta di seggi sia alla Camera sia al Senato non è un mistero, anche se nell’opinione pubblica e nei mass media questa massa di seggi moltiplicati fa aggio sull’analisi dei dati effettivi, con l’affetto di una ulteriore demoralizzazione di quella che è in realtà la maggioranza popolare, refrattaria all’alleanza delle destre e in particolare al carisma dell’"uomo di Arcore". La moltiplicazione dei seggi è infatti dovuta alla rinuncia al sistema proporzionale, rinuncia cui la forte maggioranza dei voti referendari del 1993 fu tratta dalla promessa (che veniva anche dal Pds!) d’un’Italia migliore, d’una politica più corrispondente alle esigenze "dal basso" e d’una personalizzazione delle responsabilità, cioè d’una più facile punibilità dei disonesti e dei sospetti. Da tutto ciò ha tratto dunque beneficio un uomo che in fatto di responsabilità e di rapporti con la Giustizia è, tra i capi di governo, di gran lunga il più sputtanato dell’intera storia italiana.
Non ci stancheremo di ripetere che la rottura col sistema proporzionale e l’incanalamento dei suffragi verso due "poli" le cui divergenze sono inscritte in una sostanziale unità di sistema è un vulnus storico alla democrazia italiana nelle forme che essa aveva assunto nei due travagliati dopoguerra, sotto la spinta del movimento operaio e delle classi popolari, degli uomini e delle donne nei quali si esprimevano la sofferenza della prima metà del secolo e la volontà d’un avvenire diverso e democraticamente fondato. Ed è un vulnus all’idea stessa di democrazia e alla consecutività di suffragio universale e rappresentanza proporzionale che è alle origini della democrazia contemporanea.
Il sistema maggioritario catalizza i voti dei cittadini verso due forze apparentemente opposte, in realtà contigue, blindando l’assetto economico–sociale vigente e privando le fasce convenzionalmente definite "deboli" – che tuttavia comprendono i produttori fisici della totalità della ricchezza – della possibilità d’una propria e diretta espressione politica. Risucchiando quei settori sociali nella politica meschina d’un ceto speciale di individui parcellizzati, preposti alla gestione dell’affare generale. Consegnandole al rifiuto della politica tutta intera, e quindi alla rinuncia al cambiamento, a partire proprio dalle condizioni minime per le quali un regime può considerarsi democratico.
Un discorso a sé meritano in questo quadro i giovani. L’americanizzazione della politica e della costituzione sociale che porta molti di loro al rifiuto e all’astensione è la ricaduta negativa dei maggiori spazi di edonismo loro concessi. Ma il disinteresse alla lotta e la rinuncia all’alternativa rendono tuttavia quegli spazi un controvalore inadeguato alla privazione di identità etica e perfino storica delle generazioni post–’68.
Il cerchio potrà essere spezzato solo da un’ondata di vera democrazia, entro la quale troverà posto quella forza di ribellione che potrà, lei sola, risolvere il groviglio di problemi che si è formato negli anni ’90, le cui lunghe radici, non solo italiane, risalgono proprio alla reazione al "lungo ’68" e alle sconfitte dell’imperialismo negli anni ’70.

L’elemento più importante non è stato tuttavia il successo delle destre, ma il declino inarrestabile e lo sfacelo dell’ala che si pretendeva sinistra del centro–sinistra; uno sfacelo politico che da un certo punto in poi si è trasformato in manifesta complicità, o in coazione alla connivenza. Si sbaglierebbe sia a rivolgersi agli ex–sinistri (e ex–internazionalisti, ex–pacifisti ecc.) come agli autori di un errore episodico e riparabile, sia a non trarre da questa deriva – dal Pci al Pds ai poveri e nudi "ds"– una lezione politica definitiva. Quello che è caduto (caduto già negli anni ’80) è un disegno strategico che tendeva ad espellere dal proscenio della storia il conflitto di classe e il problema dello Stato e a sostituirli con una acquisizione graduale di egemonia per linee interne. Un tale disegno non è fallito solo perché è venuto meno il contrafforte esterno dell’Unione Sovietica, ma per motivi intrinseci; non era alternativa una forza che si basava su sommatorie di alleanze e compromessi in chiave di solidarietà nazionale, alla quale ha regolarmente subordinato gli interessi specifici (ma universali) del proletariato. C’era già, da lungo tempo, un Pds nel Pci, e un ponte ideologico congiunge l’atteggiamento soccorrevole che il Pci ebbe verso la Dc nel 1976 (con attacco e denuncia dei comunisti critici) con il salvataggio diessino del povero Berlusconi dopo la sconfitta del ’94 (con attacco e denuncia dei giudici giacobini).
Risultato: la sinistra non esiste più neppure in veste ds, i boriosi intellettuali dell’assalto italo–marxista al cielo si sono dileguati, i valori minimi della critica al capitale e ai suoi apparati imperialistici di dominazione, di fame e di guerra sono abbandonati, la lotta ecologica viene fatta nella chiave empirica del caso per caso invece che essere posta a fondamento di un’alternativa al modo di produzione e distribuzione della morte. È stata determinatamente sfasciata la base. In varie città ci è stato detto che i ds non riuscivano a mobilitare neppure chi distribuisse i manifesti elettorali o facesse un po’ di volantinaggio. Alla vigilia d’una competizione decisiva il segretario di tanto ex–partito ha praticamente lasciato il suo incarico e si è candidato come sindaco di Roma; non discutiamo dell’importanza della Città Eterna, e ci compiacciamo per il successo, ma ci diverte immaginare che Togliatti potesse fare qualcosa del genere alla vigilia del 18 aprile o del 7 giugno… I ds, infine, non hanno afferrato l’occasione politica del cosiddetto "conflitto di interessi"(o meglio, precisava Paolo Sylos Labini ne "la Repubblica" del 31 maggio, degli "innumerevoli conflitti d’interesse") e hanno lasciato crescere il mostro nel cuore del sistema economico–politico sotto gli occhi sbigottiti dell’Europa, che alla serietà del Pci e della eredità che avrebbe lasciato ci aveva creduto.
Tutto ora sembra predisposto per una operazione italo–trasformistica non meno allarmante (e più insidiosa) del mantenimento della contrapposizione essenziale tra la destra e quello che resta (ancora!) della sinistra di popolo. Il trasformismo sarebbe il "colpo di spugna" del ’94 ripetuto in termini più avvertiti, e politicamente più colti: perbacco, ci starebbe anche la sinistra riformista, quella stessa che fu contro nel ’94 e ci mise dimostrativamente le spugne in mano! Più ancora, il trasformismo bonificherebbe una volta per tutte le malefatte del magnate e dei suoi accoliti, rimuovendo le relative presunzioni di colpa.
Ma al riguardo occorre precisare che la peculiarità italiana (la "anomalia") non consiste tanto nel "conflitto di interessi" (giacché economia e politica sono sempre il prolungamento dell’una nell’altra e la loro consanguineità istituisce solo conflitti di mediazione), ma il potere diretto del capitale singolo sulla politica, fino all’ibridazione delle identità politiche e allo stravolgimento della veridicità complessiva del voto. Non siamo tra quelli che, post festum, si affrettano a riconoscere la legittimità della vittoria (in seggi) del "cavaliere". Perché secondo il nostro giudizio quella vittoria non è legittima, per i motivi che abbiamo detto, e anche perché rifiutiamo di sottoporci all’umiliazione culturale e morale di chinarci al livello della nuova crematistica politica. Né crediamo alla sirena del discorsetto dei vasi cinesi dal palazzotto di Arcore (e neppure al senso della libertà di Marcello Pera) e alla troppo rapida conversione alle buone maniere borghesi, che restano estranee alla subcultura kitsch di appartenenza. Oltretutto, la credibilità dei nuovi toni "inglesi" che la stampa e la vignettistica hanno rilevato è resa dubbia dal carattere di investimento economico che l’avventura berlusconiana ha avuto fin dall’inizio e che la campagna elettorale ha pienamente assunto.

Questo carattere è stato reso manifesto dai segni inequivocabili che il rapporto con gli elettori ha avuto: la profluvie di gigantografie, i bombardamenti aerei, la teatralizzazione degli impegni, le sortite televisive con o senza firma, gli espedienti persuasivi, la vanità presuntuosa degli spot (la "scelta di campo", l’"Italia che ho in mente", il "mi è andato sempre bene tutto" e perfino l’"odore di santità" testato da Maurizio Costanzo). Più che una campagna politica, appunto, è stata una grossa campagna di mercato, studiata da chi e per chi ha tratto la sua immensa proprietà parassitaria da un sistema di pedaggi piazzati sui percorsi obbligati delle merci, sulla base giuridica di concessioni pubbliche. Altro che abilità personale e "odore di santità"! A questo proposito, occorrerà anche vedere se l’uomo presentatosi in modo così tracotante verrà giudicato dai suoi "colleghi" in grado di condurre il capitalismo al di là dell’attuale passaggio critico e di garantirne la stabilità, di assicurarne il governo economico–politico, di rassicurare l’Europa. Ha il protettore di Dell’Utri e di Previti questa statura? Agnelli e D’Amato possono forse aver pensato di sì, ed averlo sostenuto nel calore della battaglia elettorale con grave (per il primo) perdita dell’immagine metapolitica e nazional–patronale che ha sempre voluto incarnare. Ma, si sa, basta poco per mettere il "cav." nei guai e il "cav." è personalmente molto esposto ai contraccolpi della sua ascesa balzacchiana e parassitaria. Lì, in effetti, è la corruzione che la politica ne riceve; lì è la ragione del rifiuto che per parte nostra opponiamo alla degenerazione; e lì è anche la nostra determinazione ad affrontare le prove di una nuova resistenza all’operazione trasformistica non meno che al dispiegamento (fatale, pensiamo) della vocazione reazionaria degli attuali vincitori; a restituire alla politica la sua integrità, a rifondare un’alternativa.

Da dove ricominciare? "Giano" non è la voce di un partito, o di politici di professione, ma di un gruppo di studiosi i cui oggetti di preoccupazione e di studio sono i problemi internazionali, globali e ambientali. La rivista sulla quale scriviamo ha ormai dodici anni di vita. Siamo quindi portati a trarre indicazioni problematiche da questa ormai lunga esperienza. Sappiamo che la destra politica è anche reazione ideologica e culturale; là dove non lo sia, essa coltiva in sé una contraddizione che possiamo riconoscere, ma che non è caratterizzante. Soprattutto, però, noi abbiamo l’occhio a questa destra italiana, di ascendenza non liberale ma fascista o fortemente conservatrice, sempre in linea con le posizioni di nazionalrazzismo, di anticomunismo e di atlantismo oltranzista che combattiamo da sempre. Nel suo attuale leader si rintracciano, a livello di ottuso trionfalismo, tutti gli elementi di una modernizzazione ideologica e comportamentale che sono congeniali all’abuso mediatico da cui egli trae enormi profitti. La campagna elettorale non ha, si può dire, toccato i grande temi epocali e planetari; né poteva essere quello un terreno di differenziazione qualitativa, se pensiamo allo schieramento comune che ha unito centro–destra e centro–sinistra per la guerra e nella guerra della Nato in Jugoslavia, posizione comune che ha ribadito la già esistente e sperimentata union sacrée. Il provincialismo della cultura politica è un vizio tutto italiano; e ad esso fa da corollario la necessità di eleggere punti di riferimento esterno e di esserne tributari. Le capitali della politica estera italiana sono state di volta in volta Londra, Parigi, Berlino, Washington; in questo periodo storico sono l’Europa e gli Usa. Lo sono da De Gasperi in poi; tra questi due grandi magneti l’Italia si muove col discreto servilismo del cameriere astuto. Ora, però, nei rapporti tra i due continenti vengono al pettine molti nodi: commerciali, geopolitici, tecnologici, ma anche direttamente ecologici e militari. La lezione della guerra antijugoslava che gli Usa hanno imposto agli alleati europei della Nato nel cuore stesso del vecchio continente, dovrebbe insegnare molto ai francesi, ai tedeschi, agli italiani – che furono in quella congiuntura sottorappresentati dal governo di centro–sinistra presieduto da un ex–comunista ad hoc.
Ma il problema si fa ora più grave. Non può infatti sfuggire l’oltranzismo filoamericano del nuovo presidente del consiglio e del suo staff, che sembra preludere ad un netto spostamento dell’attenzione e degli impegni dall’Europa continentale agli Usa e alla Gran Bretagna. Quello che è stato giudicato come diretto intervento di Kissinger nella discussione degli orientamenti di politica estera del costituendo governo non è che la punta di un iceberg. Sotto stanno l’adesione ai progetti strategici di Bush: la ripresa dei progetti di Star Wars, la sterzata in materia ecologica che ha portato il presidente americano a stracciare gli accordi di Kyoto, una impostazione di politica estera mondiale che si esprime nelle ripetute e gravissime iniziative offensive nei confronti della Cina. C’è stato e ci sarà ancora modo di trattare direttamente questi temi su "Giano".

Ora, per quanto attiene all’Italia, notiamo che la radicalizzazione berlusconiana dell’allineamento filoatlantico del centro–sinistra rende il nostro paese, la cui posizione geografica si presta ad una totale asservimento alla strategie militari Usa e Nato, particolarmente esposto a rischi di guerra, combattuta o supportata, di prima linea o di retrovia. Ciò significa far saltare completamente ogni iniziativa italiana di pace, e specialmente la possibilità di utilizzare proprio la nostra posizione all’incrocio Nord–Sud e Ovest–Est come elemento permanente per la costruzione di una convivenza, e di una cultura della convivenza; e significa un allontanamento polemico da un’Europa che, del resto, si vergogna di Berlusconi come di un parvenu "vestito della festa" che ha sbagliato porta.
Se quell’elemento di grande mediazione del quale la politica italiana dovrebbe appropriarsi non solo non viene coltivato e sviluppato, ma si appresta ad essere completamente negato già a proposito di politica dell’immigrazione; e se si tradurrà, come negli Stati Uniti, in legame organico con le industrie militari e con la grande produzione inquinatrice, allora l’Italia andrà ad occupare un posto d’onore tra i becchini del Pianeta.
Tutto, negli atteggiamenti del presidente imprenditore e accumulatore, fa ritenere che sarà così, e che l’Italia abbia davanti a sé anni bui, preparatori di un avvenire insicuro e carico di pericoli; che intanto si approfondisca una lacerazione, che noi non rifiutiamo, ma che può portare – dev’essere chiaro – a lotte civili aspre tra concezioni e moralità politiche. Il ceto politico nel suo insieme non corrisponde al pensiero delle grandi masse lavoratrici e degli intellettuali, non rappresenta né la loro memoria né la loro idea di futuro. I giovani vogliono un lavoro sicuro, una restituzione dell’uomo agli equilibri della natura, un cambio del modo di produzione, un futuro migliore, e hanno il diritto di averli. Sulla linea di Seattle c’è Genova, ma ci saranno tutte le città e tutte le piazze d’Italia. Scegliendo l’asse con Bush sui problemi internazionali e globali, la destra ci incontrerà su quello che da anni noi indichiamo come il terreno di ripresa e di rifondazione d’una sinistra internazionalista, capace di opporsi ai rischi terribili di fine della civiltà umana per guerre e inquinamento della biosfera; una sinistra che si rifondi in una lotta nella quale la tradizione classista e il nuovo impegno per la vita del mondo convergano in una rinnovata analisi del capitalismo e dell’imperialismo e in una nuova strategia rivoluzionaria.

Su questi temi "Giano" non è certo solo; ma non ci sfugge che essi sono soltanto episodicamente e insufficientemente dibattuti anche in quella che è la sinistra politica e sociale, nella quale prevalgono posizioni legate ad un politicismo o sindacalismo irrimediabilmente vecchi. Occorre che su quei temi e sulle posizioni da assumere si apra, all’interno e all’esterno della rivista, tra studiosi e politici, tra pacifisti ed ecologisti, un dibattito impegnativo, consapevole che la civiltà dell’uomo si trova, come qualcuno ha detto, "sull’orlo dell’abisso". (l.c.)



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