Rivista quadrimestrale interdisciplinare
fondata nel 1989
GIANO. PACE AMBIENTE PROBLEMI GLOBALI
 
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 Editoriale pubblicato sul numero 42 di "Giano. Pace ambiente problemi globali", settembre-dicembre 2002

Imperialismo americano e crisi di civiltà

di Luigi Cortesi

Strumento d’un sistema economico e sociale in crisi,
l’enorme apparato militare statunitense
rappresenta un permanente pericolo per la pace mondiale

 

QUANDO LA TENSIONE CREATA DA WASHINGTON sul suo teorema del rischio mortale rappresentato da Saddam Hussein era tutta indirizzata all’Iraq, e in un crescendo spaventoso si susseguivano (e si susseguono mentre scriviamo) le notizie della preparazione materiale della guerra (anche atomica!), nel breve giro di 24 ore, tra il 9 e il 10 gennaio, sono esplosi altri due focolai di crisi. Chi tracci su un planisfero le linee che partendo dagli Stati Uniti d’America portano all’Iraq, alla Corea e al Brasile si rende conto che esse coincidono con le direttrici principali non solo di questa fase “americana” (e secondo alcuni di compimento augusteo dell’“Impero”, con relativa chiusura del tempio di Giano), ma dell’intera traiettoria storica dell’imperialismo occidentale. Resta fuori dalle preoccupazioni immediate l’Africa, dove però l’antiamericanismo sobbolle, veicolato dai dettami neoliberistici delle istituzioni di Bretton Woods e della Wto, nonché dalla semplice e crudele fame. Ma l’Africa deve marcire ancora per un tempo indefinito prima di diventare politicamente creativa e imporsi come soggetto o pluralità differenziata di soggetti sul piano mondiale.
Corea, Brasile, Iraq rappresentano in questa fase non tanto tre singole emergenze, quanto i sintomi d’una crisi profonda del sistema mondiale e dei suoi criteri di gestione.
La Corea del Nord, residuo di “socialismo reale” in versione di stalinismo asiatico, e quindi doppiamente superata, è però anche doppiamente bisognosa di agganciarsi in qualche modo al movimento generale della storia; invece ne viene respinta brutalmente, sottoposta a restrizioni nelle forniture di petrolio e a tagli delle importazioni alimentari delle quali ha sommamente bisogno. E’ superfluo dire che dietro le restrizioni e i tagli stanno gli Usa; pare invece che l’Europa non abbia tradito i patti, anche se il suo contributo è insufficiente. Il paese è alla fame, e brandisce la minaccia di abbandonare il Trattato di non-proliferazione nucleare; si tratta di iniziative dimostrative, alle quali l’Amministrazione americana, protesa in direzione del Golfo Persico ha opposto una certa superiore indifferenza. E tuttavia questa minimizzazione contraddice all’inserimento della Corea del Nord nell’“axis of evil” e alla disseminazione dei nemici designati nel tempo lungo della “guerra infinita”. Non era previsto che il paese asiatico, giunto allo stremo, ponesse la propria sopravvivenza come problema per il mondo dei ricchi che lo vuole strangolare e rivelasse in modo così traumatico la sua miserevole realtà. Ma gli Usa, inventori benedetti da Dio dell’“asso nella manica” nucleare e della nuclearizzazione della storia, e grandi trasgressori del Trattato di non proliferazione nucleare, non sono in grado di condurre una guerra e mezzo, a maggior ragione se la guerra intera fosse con la Corea e quella con l’Irak fosse retrocessa a fronte secondario. E a ragione ancor maggiore perché la Russia e la Cina sono confinanti e nei deliri dell’onnipotenza planetaria di Bush dovranno essere liquidate più avanti, in un gran finale alla John Ford. Tralasciamo qui di diffonderci sul fallimento del sistema nord-coreano, in quanto lo consideriamo – dicevamo prima – una questione storicamente residuale, sulla quale le idee dovrebbero ormai essere chiare; il dato presente e caratterizzante ci sembra invece il fallimento della politica americana nell’Estremo Oriente (in altri termini, nella stessa Corea del Sud; e comunque di fronte alla tendenza ad un riavvicinamento tra le due Coree), e la rivelazione della pochezza intellettiva e politica del team di sceriffe e sceriffi che circonda il presidente.
In Brasile la presidenza di Lula da Silva è ai suoi primi passi. La formazione di Lula, la sua accumulazione di esperienza anticapitalistica, va certamente al di là di ogni sua conversione in senso filo-statunitense; ma la prospettiva [...] continua



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