Rivista quadrimestrale interdisciplinare
fondata nel 1989
GIANO. PACE AMBIENTE PROBLEMI GLOBALI
 
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Articolo pubblicato sul numero 41 di "Giano. Pace ambiente problemi globali", maggio-agosto 2002

Il nuovo assolutismo americano e la fine della politica

di Claudio Del Bello

La condizione di "guerra infinita", che schiaccia e annulla la politica può aprire contraddizioni incontrollabili all'interno del fronte capitalistico, e liberare movimenti, a partire da quelli "no global", che possono prefigurare vie alentvedi uscita alla spirale militarista


Dopo aver declinato la guerra – questo stato di guerra – in tutti i modi, dopo aver tentato tutte le iperboli, non resta che tornare a determinarla nel suo rapporto con la politica.
Nel frattempo abbiamo potuto recuperare il senso tragico dell’assunto clausewitziano per il quale la guerra è, sì, “la continuazione della politica con altri mezzi”, ma anche condizione fondante “una nuova politica durevole di pace”, che si esplicita attraverso la stipula di nuovi trattati e l’affermazione di una nuova “legge” (o stato di fatto tacitamente riconosciuto da tutti i contraenti) regolatrice dei rapporti interstatali.
L’obiettivo della guerra – nella storia moderna, con la sola illuminante eccezione però del nazismo – non è insomma la distruzione dell’avversario, ma la sua sconfitta. Non la sua eliminazione fisica, ma la sua sottoordinazione. La guerra moderna era perciò concettualmente totale quanto all’uso dei mezzi per conseguire la vittoria, ma limitata quanto alla previsione della sua durata e agli obiettivi da conseguire. La politica, in questo quadro, è sempre rimasta “al posto di comando”, esercitando direzione sulla dimensione militare e persino, a volte, su quella economica.
La stessa esclusione dei civili dal novero (teorico) degli “obiettivi militari legittimi” – anche qui l’eccezione nazifascista – costituiva parte integrante della retorica giustificativa della guerra “politica”. Così come anche la reinclusione dei combattenti sconfitti nel novero dei titolari legittimi della sovranità della parte avversa, con relativa impunibilità per gli atti di guerra cui avevano partecipato (per simmetria fanno ancora eccezione, benché solo parziale, i gerarchi nazisti processati a Norimberga): i prigionieri, a guerra finita, tornano a casa e riprendono in mano il proprio destino. Gli sconfitti, in questo quadro, restano soggetti titolari di una piena sovranità. Era la guerra dello Stato-nazione moderno, che perseguiva il disegno razionale dell’espansione progressiva della propria “area di influenza” a scapito di altri consimili. Ma senza “annichilimento” dell’avversario.
Questo quadro concettuale, parzialmente “limitativo” della capacità distruttiva potenziale, è stato valido all’interno dei rapporti interstatali del cosiddetto “mondo civile”, ossia dell’occidente capitalistico in senso stretto; qualcuno, a ragione, potrebbe definirlo “specificamente europeo”. Nella pratica colonialista, invece, tale limite non ha mai trovato riconoscimento; valga per tutti l’esempio del “trattamento” subito dai nativi di Nord e Sud America (Pizarro e Custer sono fratelli gemelli).
Nell’ideologia colonialista, si vuol dire, gli “incivili” – i non occidentali, i non cristiani – non erano riconosciuti come uomini a tutti gli effetti, non erano considerati titolari di diritti universali. Erano passibili, perciò, di essere trattati alla stregua degli animali: distinti soltanto tra addomesticabili e no. Senza per questo turbare le coscienze “civili” e religiose d’occidente, a parte le solite “minoranze che non capiscono la modernità e vi si oppongono”.
L’eccezione nazista, da questo punto di vista, si caratterizza fondamentalmente per aver incluso [...] continua



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