Rivista quadrimestrale interdisciplinare
fondata nel 1989
GIANO. PACE AMBIENTE PROBLEMI GLOBALI
 
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Editoriale pubblicato sul numero 45 di "Giano. Pace ambiente problemi globali", dicembre 2003

Il Pnac: dall’imperialismo globale alla soluzione finale

Il Project for the New American Century (Pnac, Progetto per il nuovo secolo americano) esordì nel gennaio 1997 con una Dichiarazione di princìpi sottoscritta da 25 esponenti di quei settori della politica e della cultura statunitensi che in seguito si sarebbero chiamati “neoconservatori”. Tra in nomi illustri, o destinati a diventarlo, c’erano Jeb Bush, Dick Cheney, Francis Fukujama, Robert Kagan, William Kristol, Donald Rumsfeld, Paul Wolfowitz. Almeno otto dei firmatari avevano avuto un ruolo di rilievo nelle amministrazioni Reagan e Bush senior. La Dichiarazione proponeva il rilancio di una politica di potere militare e lucidità morale basata su quattro doveri americani:

Il testo era più esplicito nell’esposizione dell’opportunità e delle sfide che gli Usa dovevano affrontare per “forgiare” il nuovo secolo secondo i loro interessi. Il documento era stato preceduto da una lunga elaborazione, le cui origini vanno dal Committee on Present Danger (Comitato sul pericolo presente) del 1977 al Defense Plannig Guidance (Linee guida per la pianificazione della difesa) del 1992, ma che affondano nella storia otto-novecentesca della politica e dell’ideologia dell’imperialismo statunitense. Lì stanno i veri incunaboli dell’“Iperpotenza”.
Ma certo è stato decisivo il nuovo milieu interno formatosi negli anni Novanta. La fase di passaggio dal confronto con l’Unione Sovietica all’improvvisa scomparsa del nemico pareva consentire la possibilità di un deciso cambiamento della politica internazionale degli Usa – e quindi dell’intero sistema mondiale. Non è andata così, ed è peggio per il mondo.
Nella crisi e nella guerra irachena del 1990-91, nell’aggiramento e nella sostanziale neutralizzazione dell’opposizione democratica, nella invenzione ed insistente evocazione di nuove sfide e minacce, nella risicata e sospetta vittoria elettorale di Bush junior si colloca il fallimento dell’occasione storica. Un fallimento al quale i neocons hanno attivamente contribuito, giocando prima sulla debolezza di Clinton e poi sull’adesione di molti tra gli stessi democratici al loro programma, con una campagna di impronta nazionalistica e imperialistica senza precedenti: o meglio, con il procedente della politica aggressiva e reazionaria di Reagan, che a sua volta può riconnettersi all’asse dell’espansionismo statunitense della “frontiera” e del “destino manifesto”.
Priva di concrete possibilità di alternativa politica e strategica, con alle spalle un’opposizione sociale frantumata e depoliticizzata, la storia americana – in particolare quella del potere americano – mette perpetuamente di fronte alla tentazione di dichiararne la sostanziale continuità, al di là di quanto possano dimostrare l’analisi differenziale della società yankee e lo stesso credito che nella sinistra mondiale del ‘900 hanno riscosso e riscuotono personalità come quelle di Daniel De Leon, di Sweezy, di Chomsky. Ma i neocons – via via che sviluppano le loro iniziative pubblicistiche e la loro forza di pressione sull’apparato, fino allo sfondamento operato con George W. Bush e la sua amministrazione – vanno ben oltre quella continuità. Essi sono a tal punto invasati dal senso della missione americana da esigere una scelta essenziale di guerra, a prescindere cioè dai motivi concreti che possono provocare una guerra singola, e ad organizzare una serie ben collegata di rotture, con l’Onu, con l’Europa, con il mondo arabo-islamico, con ogni possibilità di mediazione; una scelta che conduce alla distruzione non solo del diritto, ma anche della politica internazionale. La guerra diventa non la continuazione e l’eventuale soluzione di uno stato di crisi politica, ma l’istituzione permanente che sostituisce la politica, diventando costituente d’una inedita barbarie. L’attentato dell’11 settembre alle Twin Towers è tanto provvidenziale agli sviluppi di questa ideologia, e alle iniziative che essa ispira, da alimentare un sempre più forte e irrisolto sospetto sulle origini e la dinamica dei fatti. E il disegno di rimodellamento del mondo è tanto criminalmente grande, da far comparire la caduta delle torri come un preliminare tattico, o una semplice miccia. Chi si avvicini ai testi della “rivoluzione democratica dei neoconservatori” si sente quasi accompagnato per mano a considerare l’11 settembre come un episodio di maestosa spettacolarità, funzionale ad una economia strategica di scala e perciò continuamente riproposto..
Nella “guerra infinita al terrorismo internazionale”, nella scoperta e punizione dei più o meno improbabili colpevoli, la cultura neoconservatrice trova l’orgasmo lungamente desiderato e preparato. Secondo alcuni osservatori, non mancano in Bush e nei suoi consiglieri tratti di fondamentalismo giudaico-cristiano che sostengono la guerra globale con i valori d’una torbida tradizione mistica. Essi però sono – in quella società - utili all’esplicazione politica d’una prospettiva imperialistico-missionaria che negli scritti dei neocons tocca vertici deliranti: quella che lo stesso Brezinski ha bollato come “visione paranoica del mondo” .
In perfetta conseguenza con i quattro doveri sopra esposti, due dei cervelli più brillanti del gruppo - i già reaganiani e poi co-fondatori del Pnac R. Kagan e W. Kristol - hanno sostenuto in un famoso articolo di quattro anni fa, Present Danger, che al pericolo rappresentato dall’Urss è succeduto quello d’una autosvalutazione che ha condotto la Superpotenza dotata di responsabilità globale a deplorevoli atteggiamenti di “potere in declino, volontà vacillante e confusione circa il suo ruolo nel mondo”. (p. 44) La presidenza Clinton ha incoraggiato queste tendenze al “disarmo strategico e morale” e all’indebolimento militare, mentre entro una decina d’anni “l’Iraq, l’Iran, la Corea del Nord e la Cina saranno in grado di attaccare gli Stati Uniti con armi nucleari” (p. 46) e la Russia “potrebbe decidere di reclamare una parte di quanto perso nel 1991”. I due autori chiedevano quindi un “cambiamento fondamentale” circa il “ruolo dell’America nel mondo” come forza del Bene capace di preservare , estendere, plasmare, modellare un “ordine internazionale compatibile sia con i nostri interessi materiali, sia con i nostri princìpi (p. 50) E poiché “determinare che cosa sia nell’interesse nazionale americano è un’arte, non una scienza”, occorre anche - a giudizio di Kagan e di Kristol – “occasionalmente intervenire all’estero, anche quando non possiamo dimostrare che è in gioco un ‘interesse vitale’ degli Usa definito in maniera circoscritta” ( p. 51) E quindi sostenevano l’opportunità di “cominciare a creare problemi a nazioni ostili o potenzialmente ostili, piuttosto che aspettare che queste ultime creino problemi a noi”.
Tra le nazioni ostili, a parte quelle minori, note ormai come “asse del male” l’accento batteva insistentemente sulla Cina. In The National Security Strategy l’insistenza sulla proiezione statunitense verso l’Asia profonda era tale da suggerire a commentatori e analisti che la Cina è l’obiettivo dell’Iperpotenza; e già le date del grande confronto corrono sulla stampa mondiale: 2017, 2025, 2030. La rincorsa presa dagli americani tra il 1989 e il 1991 va dunque diritta verso una nuova conflagrazione mondiale: sarebbe quello il capolavoro della nuova arte politica. La generazione dei bambini dei primi anni 2000 si prepari al nuovo e più terribile “infanticidio differito”, che sarà probabilmente il definitivo umanicidio.
Il documento presidenziale del settembre 2002, del quale “Giano” ha più volte informato, e ancora informa e discute in questo fascicolo – ha dietro e dentro di sé quelle elaborazioni, le media con la politica come arte, e le mette al centro dello scenario di “guerra infinita”, anche “preventiva”, di proiezione militare dei “valori americani”, di rimodellamento del mondo a partire dall’Asia, dove a Israele è demandato di volta in volta il ruolo di punta di lancia contro il subcontinente arabo-islamico e di retrovia della “rivoluzione democratica globale”, infine di completo rovesciamento del diritto internazionale; nei suoi più ispirati discorsi - come quello del 6 novembre scorso al National Endowment of Democracy, forse il più neocon di tutti - il presidente Bush ricrea il mondo a immagine e somiglianza del binomio interessi-valori ignorando totalmente l’esistenza dell’Onu.
Non è facile –per richiamare nel quadro problematico che occorre tenere presente anche l’altro rischio planetario finale – rintracciare un pensiero ecologico coerente negli scritti dei neoconservatori, né nella Weltanschauung presidenziale. Alla luce delle discussioni in corso – che gli Usa stessi rendono frammentarie e infruttuose – propendiamo a negare che da quella parte un pensiero ecologico degno di questo nome vi sia, e che esso comunque abbia lo stesso range globale d’un delirio di onnipotenza che è delirio di annientamento. Una globalità scaccia l’altra. Gli Usa, più accentuatamente con il governo in carica, sono dunque a doppio titolo un pericolo per il mondo, nel senso letterale della possibile e reale fine della storia umana.
Ben lontani dal restringere questa imminenza della tragedia in un angusto “antiamericanismo”, non possiamo però evitare di ripetere e diffondere la nostra preoccupazione. Lo facciamo nel modo che ci è proprio: con studi e analisi rigorose, che tuttavia non fingono neutralità “scientifica”, la vera scienza essendo adesso quella di attrezzarsi e attrezzare il mondo ad una inedita emergenza. (D.)
Nota. Citazioni testuali e riferimenti sono tratti da The National Security of the United States of America - September 2002, testo orig. in www.whitehouse.org ; I nuovi rivoluzionari. Il pensiero dei neoconservatori americani a cura di Jim Lobe e Adele Olivieri, Milano, Feltrinelli, 2003 (Dichiarazione di princìpi [del Pnac], pp. 66-79; R. Kagan e W. Kristol, Il pericolo odierno, pp. 43-63); Christian Rocca, Esportare l’America. La rivoluzione democratica dei neoconservatori, Milano, I libri del Foglio, 2003; E. Caretto, L’impegno di Bush: “Democrazia in Medio Oriente”, “Corriere della sera, 7 novembre 2003; Z. Brzezinski, Potere e paranoia dell’America di Bush, “la Repubblica”, 19 novembre 2003; C. Del Bello, Il nuovo assolutismo americano e la fine della politica, “Giano”, n. 41, settembre-dicembre 2002, pp. 9-15; S. Minolfi, La Superpotenza “hobbesiana” e la disarticolazione dell’Occidente, “Giano”, n. 42, settembre-dicembre 2002, pp. 29-51; A.M. Imbriani, “Minaccia universale” e “guerra permanente” nella National Security Strategy 2002, ivi, pp. 53-73; D. Di Fiore, “Valori americani”, “Giano”, n.43, gennaio-aprile 2003, pp. 51-62




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