Rivista quadrimestrale interdisciplinare
fondata nel 1989
GIANO. PACE AMBIENTE PROBLEMI GLOBALI
 
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Editoriale pubblicato sul numero 53 di "Giano. Pace ambiente problemi globali", mnaggio 2006

Da un governo all’altro

Al mondo che si autoproclama “la politica” la nostra rivista si accosta con diffidenza: perché, sul piano dei problemi che consideriamo prioritari e urgenti, è un mondo di inadempienze e di rimozioni, oppure di regressioni che non trovano una sufficiente opposizione culturale. E “la politica” non è in realtà un mondo, ma un ceto, che – anche per la non casuale eclisse della forma-partito e della vita di partito come lievito di una democrazia “progressiva”– mantiene scarse connessioni con le condizioni reali della società civile.
Una pesante regressione e ignoranza abbiamo registrato nel quinquennio del governo Berlusconi; ed essa è andata nello stesso senso d’una grave crisi morale già in corso, ne è stata trascinata, ma l’ha anche incoraggiata ed alimentata. Gli è ora succeduto un governo di centro-sinistra: a scanso di guai peggiori, abbiamo goduto della sua affermazione. Ma non abbiamo alcuna garanzia che esso possa avere una seria tenuta politica, né che possa essere il contenitore di un processo di recupero e rilancio etico-politico. Le sue prime prove, quelle della preparazione e della formazione, sono state a dir poco disastrose: tacitamento (alla Cancelli) delle più varie tendenze e mini- clientele, “spacchettamento” di ministeri con proliferazione di incarichi, promozione di componenti chiaramente inaffidabili (ne ha sofferto particolarmente il già stremato e umiliato ministero della Giustizia, per non dire della Pubblica Istruzione), protagonismo mediatico di ministri e sottosegretari, “ascesa” del segretario dell’unico possibile partito di alternativa sociale ad una carica istituzionale onorifica, ma paralizzante sul piano del chiarimento e della promozione degli interessi popolari e proletari. Tutti abbiamo dunque salutato con sollievo la sconfitta del “caimano”, ma subito dopo ci siamo ritrovati in una crisi politica, sociale e morale che non può essere imputata al solo Berlusconi.
Un’altra politica è possibile e augurabile; e almeno dagli anni tra i ’70 e gli ’80 – allorché si suggellò la definitiva integrazione del Pci nel sistema nazional-atlantico – e con maggiore urgenza dagli inizi degli anni ’90 c’è la percezione regolarmente frustrata della necessità di un nuovo orientamento e di una nuova strategia delle forze di opposizione al sistema. Perché in quelle date e perché in coincidenza con il tramonto del “più grande partito comunista dell’Occidente”? Perché proprio lì si situa la svolta storica mondiale alla quale si possono dare vari nomi – neoliberismo, rivoluzione microelettronica, post-modernismo, globalizzazione, imperialismo unilaterale, rimilitarizzazione –, ma che appare sempre più dominata dal rischio di un collasso irreparabile dell’intera civiltà umana. È questo l’elemento caratterizzante della crisi cui accennavamo, alla quale l’Italia partecipa semplicemente accentuando i difetti del proprio “carattere” nazionale, col suo tipico mix di tragico e grottesco.
Può essere quel processo anche il contenitore e il coefficiente di coscienza d’una ripresa intellettuale e politica dell’alternativa, diventata ora il to be or not to be non solo del socialcomunismo, ma proprio dell’intera civiltà umana? È questo l’interrogativo tremendo dei nostri decenni; è questo l’orrore oggettivo dello scenario del 2000. Il dilemma è tale che ogni sforzo di elaborazione e di azione deve essere dedicato ad una risposta di grande peso storico-universale. Anche le visioni angustamente italocentriche e persino eurocentriche vanno ripensate all’interno del problema generale, dove unicamente possono trovare propri ambiti di validità. Tutto il resto è superfluo, è perdita di tempo, la politica ridotta ad un vuoto torneo retorico, la pedagogia e l’etica affidate a Mediaset o alla Gea, le conquiste della coscienza strangolate dalle “tre i”, la moralità rinchiusa nel feticismo del sesso e del denaro.
L’avvio ad una soluzione, il primo approccio, al problema della sopravvivenza, è l’individuazione del soggetto o dei soggetti collettivi, e la loro restituzione ad una ragione dell’esserci e del fare. Ciò significa tornare a ragionare nei termini non di qualche ortodossia della sicurezza e della vittoria, ma di area sociale e di rapporto consapevole con il movimento della storia.
È dei primi anni ’70 il primo manifestarsi di una problematica ecologica, con gli esordi non solo di un’elaborazione teorica, ma anche di un interesse di massa all’ambiente dal punto di vista planetario; un interesse tuttora vivo e crescente, ma che deve nutrirsi d’informazione e di capacità critica all’altezza dei nuovi problemi. E sia nei primi anni ’80 sia agli albori del nuovo secolo – ma Seattle 1999 ne era già un preannuncio – è andato sviluppandosi un movimento di massa per la pace e per un internazionalismo di convivenza e collaborazione, un internazionalismo “meticcio” che si è contrapposto dapprima ai programmi reaganiani di riarmo e di ricatto nucleare, poi alla rilegittimazione della guerra, via via diventata “guerra infinita” e componente stabile della geopolitica mondiale americana. Questi due movimenti antagonistici – ecologismo e pacifismo – devono diventare uno, nella teoria e nella pratica sociale; il movimento di chi sa che il “sistema unico” opera lungo un crinale catastrofico, che esso è fallito ai suoi stessi obbiettivi, e che nel suo fallimento trascina il mondo. La storia del ‘900 ci dice che questa è la sua vocazione, e che troppo terreno è già stato ceduto ai nemici della vita e della storia.
È qui che devono esercitarsi gli sforzi di elaborazione culturale, di comunicazione collettiva, di organizzazione; è qui che un altro mondo diventa possibile, benché il cammino sia lungo e la sua prima parte sia la più dura. Molto tempo è stato perduto, specialmente dal 1991 in qua, ma devono sostenerci l’amore della vita e l’autoterapia dell’azione strategicamente consapevole. Cominciare dal poco, ma cominciare. Confermando la barbarie della sfilata militare nel centro di Roma si è perduta l’occasione del 2 giugno; ma ci sono altre barbarie, nella politica interna e nella politica estera, con le quali occorre misurarsi. Il ritiro dei nostri corpi di spedizione dall’Iraq e dagli altri teatri di guerra nei quali sono stati mandati (non a caso luoghi classici dell’imperialismo bianco) non è che una prima opportunità nel quadro di un rinnovamento generale socialmente radicato, che può dare un senso alla nostra stentata democrazia, e un volto meno subalterno e più serio alla nostra presenza internazionale. Un problema che necessariamente si pone è quello delle basi americane e della loro dotazione nucleare; passata la “guerra fredda”, l’esistenza di quelle basi ha perso ogni ragione. Solo se si investono questi problemi si può tendere ad una nuova cultura e ad una nuova politica della globalità, e ad esse condurre le nuove generazioni, alle quali oggi si nega un futuro che non sia di precarietà e di sofferenza.
Ecco quello che “Giano” si sente di dire a chi fa parte del nuovo governo: o cominciate questo nuovo cammino, e ricostruite il rapporto di comunicazione politica e di fiducia con le masse popolari e con i giovani, oppure ricadrete nel berlusconismo, il cui eponimo avrà ragione di ridere di voi e di noi tutti, e di puntare ad una rivincita clamorosa, che per la dimensione di piazza che il ricco epulone evoca potrebbe essere eversiva e “definitiva”. Di fronte a questi scenari non si può né cedere altro terreno né perdere altro tempo. L’Italia e il mondo non si salvano col protagonismo delle interviste e dei salotti televisivi, né con il narcisismo istituzionale e costituzionale, che mette in secondo piano i possibili soggetti del cambiamento, ma riprendendo la strada in salita dell’organizzazione sociale e della dialettica di integrazione tra movimento e coscienza storico-politica. (D.)




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