Rivista quadrimestrale interdisciplinare
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GIANO. PACE AMBIENTE PROBLEMI GLOBALI
 
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  Editoriale pubblicato sul numero 51di "Giano. Pace ambiente problemi globali", settembre 2005

Crisi capitalistica e crisi di civiltà

di Luigi Cortesi

La catastrofe di New Orleans induce a ripensare lo stato attuale dei problemi mondiali, della loro percezione e della loro coscienza; l’antinomia tra cultura politica ed ecologia; l’origine dei rischi connessi; il pericolo rappresentato per l’intera umanità dalla strategia aggressiva degli Usa

La fragilità della storia
Il mondo, intendiamo il complesso natura-cultura entro il quale si svolge la storia umana, si trova in questo passaggio intergenerazionale in una condizione del tutto inedita, che per più motivi ci sembra impreparato ad affrontare. Se fino a questo passaggio la fragilità dell’esistente e la paura del futuro hanno lasciato segni forti di rivelazione nelle religioni e nei miti e di riflessione nelle filosofie e nelle letterature di tutte le culture e di tutte le epoche, ora esse trovano agganci scientifici e laici che affermano l’effettiva concretezza dei rischi di annientamento biostorico universale. Si può ipotizzare che potrebbe non trattarsi di annientamento, ma di una transizione ad altra condizione complessiva del vivente sulla Terra; resta il fatto che anche nel caso più “favorevole” si tratterebbe di un vulnus che inciderebbe a tal punto nella consistenza dell’ambiente e nella vita dell’uomo da dividere nettamente in due parti l’era antropozoica e da avviare la nuova storia verso un destino completamente ignoto, un “dopo” del tutto indesiderabile.
Quella nuova storia non ci apparterrebbe più; rotta ogni continuità con la storia “nostra” - anche con quella che prevede o ha preso atto dell’esistenza d’una fascia di discontinuità e imprevedibilità - essa potrebbe precipitare in una condizione di barbarie pre-contrattuale nella quale si annullerebbero quelle che abbiamo fin qui considerato come conquiste faticose, ma definitive nel loro orientamento generale. In un recente articolo Timothy Garton Ash ha scritto: “Lasciate quindi perdere lo ‘scontro di civiltà’ di Samuel Huntington. […] A rischio qui è semplicemente la civiltà, la sottile crosta che stendiamo sul magma ribollente della natura, quella umana inclusa”. Siamo d’accordo, anche se Garton Ash insistendo più sul regresso soggettivo dell’uomo che sulla concreta oggettività della problematica ecologica mostra di sottostimare il carattere sistemico e politico della “decivilizzazione”.
Quello che invece non si può concedere a chi voglia discutere con serietà e coraggio di questi problemi è la sottovalutazione implicita nell’accusa di catastrofismo, che tante volte è stata rivolta anche alla linea di analisi di “Giano”. La catastrofe è presente nel nostro tempo e ci accompagna quotidianamente - come la morte individuale nella partita a scacchi filmata da Ingmar Bergman o nel mito di Samarra riferito da Enzo Tiezzi - in ogni passo che compiamo, e specialmente in quelli che affrontiamo con maggior sicurezza in una direzione di progresso che ci appare sperimentata e garantita. Nella trasmissione radiofonica Prima pagina del 7 settembre scorso un giornalista e intellettuale di prestigio, Enrico Deaglio, non ha esitato ad iniziare la propria rassegna quotidiana con la notizia dei gravi turbamenti che la vita sul nostro Pianeta potrebbe subire dall’accresciuta attività di macchie solari. Citiamo il fatto perchè Deaglio ha osato superare quella soglia convenzionale di reticenza che custodisce l’ineffabilità dell’éschaton, cioè la sua scorrettezza sociale, ma vogliamo chiarire che non condividiamo lo spostamento delle nostre inquietudini a livelli extraterrestri.
Il senso della catastrofe va rigorosamente fondato dentro il perimetro della prassi umana; su questa e sulla sua tipologia caratterizzante deve vertere e mantenersi il discorso. Gli anni 1945-1970 – da Hiroshima alle rivelazioni dei “limiti dello sviluppo” - ci hanno reso coscienti della fragilità della costruzione umana della storia. E’ in quel perimetro della prassi - sul quale gli studiosi delle “due culture” esercitano il loro lavoro di ricerca - che dobbiamo mantenere e sviluppare la consapevolezza apocalittica e il dovere di aver paura teorizzato da G. Anders (e solo parzialmente accolto, ma anche fortemente limitato da Norberto Bobbio ) e comunicarlo ad altri, come condizione di ripensamento critico della storia umana sia sul piano della politicità sia per quanto riguarda le sue radici antropologiche profonde.
Prassi come storia e come costruzione di civiltà: ma quale civiltà? T.G. Ash conclude il proprio intervento proiettando nel futuro la previsione che “intorno all’anno 2000 il mondo raggiunse un apice nella diffusione della civiltà cui le generazioni future guarderanno con nostalgia e invidia”. Colpisce, nel discorso, l’uso indifferenziato del termine “civiltà” - uso che è legittimo a certi livelli di astrazione, ma che in un’analisi approfondita ha bisogno di specificazioni. E’ difficile pensare che le generazioni dell’Africa subsahariana o dell’Ecuador o della striscia di Gaza potranno trovare simili motivi di nostalgia. La civiltà alla quale si riferisce l’autore - pur consapevole en passant delle ragioni materiali dei grandi rischi - è infatti con tutta evidenza quella stessa al cui impianto strutturale viene da molti attribuita la genesi del disastro americano e di tutto un trend a vocazione apocalittica.
Ash non è ovviamente il solo a giudicare la civiltà occidentale e la sua forza diffusiva come un “apice” storico. In un intervento sul tema dell’11 settembre Ernesto Galli della Loggia parla di contrapposizione tra “due tipi di forze” – quelle unificanti “dell’economia e del mercato” e quelle “immateriali della religione, del costume, della tradizione” – tra le quali è perfin troppo facile cogliere un giudizio dicotomico progresso – conservazione e impedimento. Scritto certamente prima di New Orleans, l’intervento è centrato sull’ “immenso impatto visivo simbolico” che ha fatto dell’11 settembre “una sorta di apice riassuntivo e di reagente di una generale condizione di ambiguità e insieme di precarietà e di rischio che molti altri ambiti e indizi annunciavano da tempo”. Giudizio che a maggior ragione vale per New Orleans, perché in Katrina non è presente solo la componente guerra-terrorismo, ma tutta la “generale condizione”, con i nessi che ne collegano i molteplici elementi. Ma, da quando?
Era necessario l’“evento-frattura” delle Twin Towers perché gli storici percepissero quella condizione del mondo? Non rimandano quegli “altri ambiti e indizi” ad una serie di “eventi-frattura” che limitano l’11 settembre a conferma, certo fortemente significativa, di ulteriore “rivelazione” d’un’apocalisse già avvenuta, di un movimento di forze storiche in senso catastrofico? Ricordare i bombardamenti atomici dell’agosto 1945 e l’implicita condizione terminale universale – l’imminenza del pantoclasma di cui scriveva Franco Fornari – è a questo punto d’obbligo; lì è l’apocalisse e lì è una periodizzazione macrostorica che alla sua volta rimanda ad “ambiti e indizi” che nell’arco diacronico unitario imperialismo-“guerra dei trent’anni” avevano preso corpo in modalità sconvolgenti di relazioni internazionali e di unificazione mondiale, di supremazie di civiltà, di tecniche di uccisione di massa, di uso biopolitico di avvenimenti programmati, finanziati e militarizzati della ricerca scientifica e della tecnologia di guerra.
Ad una visione del genere invita Gian Enrico Rusconi anticipando anch’egli un intervento al Convegno dell’Istituto storico italo- germanico di Trento , che si riferisce alla rivalità franco-tedesca e specialmente alla cultura del 1914, ma che s’allarga alle “’piccole guerre’ imperiali-coloniali […], fucina di uomini, di idee, di tecnologie. Sono guerre ‘asimmetriche’ e ‘interminabili’ [come] le guerre di oggi dell’iperpotenza americana”. Se si accetta questo background il discorso diventa enormemente più ampio e più complesso di quello che possa farsi se si limita il proprio campo di osservazione al potere magnetico sprigionato dall’11 settembre. Per non dire che su quello stesso evento gravano interrogativi pesanti che rimandano ad intrecci, sovrapposizioni, cospirazioni, compresenze che lo rendono molto più intricato della sua riduzione a maraviglioso avvenuto nientemeno che a New York. E se veramente vogliamo ridare attenzione alla “filosofia della storia” – io direi più moderatamente ad una teoria della storia – che includa il complesso, il sussultorio, l’ironico, il casuale, definendoli in un rinnovato tentativo di unificazione concettuale, allora dobbiamo veramente fare un grande salto al di là dell’euristica storiografica fin qui condivisa.
In primo luogo, è necessario porsi domande che riguardano non la pura storiografia professionale, ma l’intero “mestiere” e l’intera deontologia; non la sola interdisciplinarità umanistica, ma la capacità introiettiva e metabolica della cultura storica e i limiti che essa rivela non appena elementi che essa ritiene estranei alla propria stoà – la natura chimico-fisica, la termodinamica, la climatologia, l’accelerazione artificiale dell’entropia, la tipologia dello ricerca scientifica e se essa fosse inevitabile – facciano irruzione nel proprio convenuto fenomenologico. In altre parole, piuttosto che di “filosofia della storia” io propongo che ci si interroghi sul sapere generale del ricercatore di storia e sui rapporti tra saperi speciali frammentati e non più riconducibili ad uno se non, appunto, con uno sforzo di ricomprensione e ridefinizione di quanto ora ci appare in conoscenze parcellari e segmenti incomunicabili.
Non sarà possibile, io penso, pervenire a questo – forse neppure avviarne il corso – se non attraverso un’autocritica della civiltà occidentale. Non già per una sorta di masochismo dell’ “apice” raggiunto, ma perché è chiara (e indiscussa, oppure imperfettamente e vanamente rimessa in discussione) la sua primazia, e quindi la sua responsabilità nella creazione dei grandi rischi e nello sprofondamento verso la barbarie.

La violenza sul vivente
Vorremmo fosse chiaro che non si sta qui facendo un discorso “di partito”, ma che siamo consapevole della portata politica rivoluzionaria d’una presa di coscienza del carattere ambivalente della tipologia di sviluppo imposta al mondo, e della prevalenza in essa dell’aspetto degenerativo e distruttivo. A ciò aggiungiamo l’imminenza del rischio pantoclastico, dovuta alla crescente velocità dei fenomeni entropici e alla sempre più ardua possibilità di accordarli con i tempi della natura. Tra le molte voci critiche degli Usa, alcune hanno significativamente attraversato lo stesso ceto politico-militare di Washington e messo alle corde una presidenza fin qui militaristicamente baldanzosa, profondamente ignara non solo dei problemi sociali interni ma perfino dei nessi tra questi e le dimensioni globali delle politiche ambientali. Una presidenza che ha rifiutato Kyoto e che vuole sostituire i guasti della tecnocrazia con una robusta aggiunta di tecnica; che al posto di una regolamentazione degli investimenti vuole investire in nuove operazioni tecnologiche; che anche ora pensa, più che alla catastrofe come tale, ai vantaggi d’una ricostruzione orientata secondo i rovinosi principi del capitalismo neoliberista e gli interessi concreti di marca Halliburton.
Questi aspetti centrali che hanno determinato la genesi e la natura del disastro di New Orleans sono stati tempestivamente colti da Jeremy Rifkin, presidente della Foundation on Economic Trades e ben noto studioso di questioni globali:

Gli Stati Uniti – ha detto Rifkin – sono stati colpiti dall’effetto serra e non da un semplice uragano. In queste ore la Casa Bianca sta nascondendo all’opinione pubblica mondiale ciò che la comunità scientifica internazionale ha previsto da anni, cioè che il surriscaldamento del pianeta è dovuto allo scellerato modello di sviluppo neoliberista. […] Il vero nome di Katrina, e della maggior parte dei cicloni che hanno investito la costa del Golfo, è ‘global warming’. Si parla di una sfortunata calamità naturale, e non si vuole riconoscere che questo è un prodotto dell’uomo. […] Adesso stiamo imparando sulla nostra pelle tutto quello che non abbiamo fatto finora: non abbiamo risparmiato energia, non abbiamo usato energie rinnovabili, non abbiamo tassato la benzina, non abbiamo firmato gli accordi di Kyoto. Non abbiamo nessuno da incolpare. Noi siamo responsabili di New Orleans, e con noi la nostra classe politica .

L’approccio ecologico-politico apre varie direzioni di discorso, che sono del più alto interesse per lo storico. Teniamoci aderenti a Rifkin. Lo “scellerato modello di sviluppo neoliberista” chiama in causa pesantemente la storiografia; e non si tratta di storia economica nel senso tradizionale, giacché questa riguarda una consecuzione, anche segnata da crisi profonde, di lunghissime durate, mentre la scelleratezza è collegata a una visibile e dimostrabile soglia escatologica, il cui approssimarsi procede a ritmi accelerati che sono pertinenti all’economia politica. Qui il “modello di sviluppo” coinvolge l’intera strategia del sistema e la prassi antropica nella sua totalità, ivi comprese quelle dimensioni di cultura, mentalità, realizzazione individuale che sembrano innocue all’ambiente di vita, ma che incidono in esso in quanto consone alle decisioni di investimento e alle conseguenti spinte selettive e manipolate ai consumi di massa. Le leve strategiche sono del politico, il comando è delle istituzioni, e mai questo è stato tanto chiaro come negli ultimi decenni (dagli anni 1980 in qua), in relazione paradossale con i processi di aziendalizzazione e privatizzazione del pubblico.
Il processo del rischio ecologico conosce picchi fattuali impressionanti – da Bophal a Harrisburg, da Cernobyl a New Orleans; ma le catastrofi sono ormai innumerevoli – ma si svolge con una gradualità tanto più insidiosa in quanto manca la continuità dell’informazione e la sua promozione a cultura complessiva e alternativa. Là dove collidono con gli interessi alla funzionalità del sistema informazione e cultura cessano, oppure vengono distorte e capovolte. Su questo punto si innesta una possibile funzione della ricerca critica, nel senso non già della controcultura minoritaria ma della grande costruzione intellettuale e politica.
Il dovere del realismo, e la stessa ormai lunga esperienza di “Giano” ci portano a dire che ciò non sta avvenendo; che non c’è un vero movimento intellettuale di rifondazione; che nessuno dei compartimenti disciplinari riconosciuti è fino a questo momento caratterizzato dalla nuova “rivoluzione copernicana” della coscienza escatologica; che l’ecopacifismo “verde” si limita ad operazioni di piccolo cabotaggio che sono il frutto d’un moderatismo pericoloso; che la stessa stampa che si dichiara comunista, rivoluzionaria, alternativa ignora la priorità del dato nuovo rispetto al grigiore delle coerenze ortodosse e si nutre ancora di quello che già una volta ho definito “progressismo quantitativo”; che le stesse formazioni di origine operaia la cui denominazione rivela un legame storico con la ricerca di una nuova civiltà e di una vera storia sono pervase d’un riformismo tutto interno alla logica del progresso distruttivo, dominata dall’ideologia della crescita economica generatrice di consenso estorto; che la politica ut sic si sottrae all’ecologia perché teme le conseguenze rivoluzionarie del suo impatto conoscitivo.
Scoperchiando la contraddizione tra la naturale “dimora di tutti i bioti” e il sistema del capitale, New Orleans ha rotto per qualche giorno o qualche settimana la coltre delle sicurezze e delle rassicurazioni; ha innescato una tendenza critica di massa che ha fortemente avvertito l’essenza della violenza ecologica e i suoi nessi d’acciaio con la violenza politica, la repressione civile, la natura classista del razzismo, la guerra. Nell’opinione pubblica il fatto è stato inteso come globale, e il suo esplodere negli Stati Uniti d’America come allusivo a responsabilità globali di questo Stato e di una tradizione politica che l’amministrazione in carica rappresenta al peggio. Ma la strage di vite umane e le immani distruzioni saranno inutili se non concorreranno a promuovere un nuovo movimento politico e culturale nel senso che abbiamo cercato di indicare. E riteniamo che gli storici di buona volontà abbiano molto da dire in proposito; basterebbe, intanto che essi dimostrassero nei confronti della violenza ecologica la stesse sensibilità che viene trapelando in materia di violenza guerresca .
Quello della violenza sui viventi è un aspetto del problema ecologico la cui gravità sfugge agli stessi studiosi dell’età contemporanea. E’ un aspetto macroscopico che tuttavia non trova spazio nei nostri libri di storia. Ha richiamato l’attenzione sulla questione il pur moderato McNeill, in un passo (peraltro dedicato al solo inquinamento dell’atmosfera) che merita d’essere ripreso ampiamente:

[…] calcolerei – egli scrive – in 20-30 milioni le vittime dell’inquinamento dell’aria nel periodo compreso tra il 1950 e il 1997. Se si considerasse il XX secolo nel suo complesso, il dato non varierebbe granché, perché la popolazione urbana era in precedenza più ridotta, anche se, almeno nel mondo occidentale, produceva un maggiore inquinamento atmosferico. Tenendo conto di tutto, una stima molto ipotetica del tributo pagato all’inquinamento atmosferico nel corso del XX secolo potrebbe oscillare tra i 25 e i 40 milioni di morti; cifra assai vicina alla somma dei morti nei due conflitti mondiali, e parimenti vicina al totale delle vittime dell’epidemia di influenza scatenatasi nel biennio 1918-19, ossia quella che si può considerare la malattia infettiva del XX secolo dalle conseguenze più catastrofiche .

Si può supporre che la maggior parte delle vittime dell’inquinamento sia morta in età più avanzata rispetto alle vittime delle guerre come infanticidi differiti; ma insomma la causa della loro morte è pur sempre dovuta alla violenza (e ad una forma nuova di violenza di massa) come vero e proprio istituto politico del mondo attuale. Non sarebbe il caso di riunire le due forme di violenza sistemica e di impegnarsi ad affrontarle in un unico grande sforzo di elaborazione, organizzazione interdisciplinare della ricerca, divulgazione dei dati e della sensibilità dei rischi, mobilitazione etico-politica? “Giano” cercherà di prendere l’iniziativa in questo senso, rivolgendo preliminarmente ad un certo numero di storici e studiosi un invito alla discussione.

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Ho annunciato di voler parlare dell’origine immediata e politica dei rischi globali e della tragedia di New Orleans. Sono stato abbondantemente preceduto da molti analisti, studiosi e scrittori, americani e non, e usufruirò quindi dei loro commenti aggiungendovi mie considerazioni. Ma penso sia opportuno partire dall’articolo che Marco Blatero ha dedicato al “dopo Katrina” , e che individua “tre vicende tragiche, emotive, epocali” per gli Usa e per il Presidente in carica: i problemi che entrano in movimento sono la crisi dell’alleanza tra destra religiosa, destra tradizionale e neocon, dovuta ai dissensi in materia di politica fiscale e di politica estera, lo spettro di una dominazione “bigotta” nella Corte Suprema, una praticabile exit strategy in Iraq dopo l’approvazione della Costituzione. Tutto giusto, ma troppo interno ad una condizione di crisi che Blatero trascura, quella cioè della scelta di politica economico-sociale che va sotto il motto “più mercato, meno Stato”. Questa è invece la matrice e il punto centrale della crisi americana esplosa a New Orleans; e, a un quarto di secolo dalla reaganomics i dubbi e gli interrogativi al riguardo sono numerosi e radicali.

Più mercato, meno Stato
Che significa, in primo luogo, quella formula ormai sacralizzata se non una intrusione forte dello Stato nella vita economica e sociale? A noi pare che lo Stato non sia mai tanto presente e pesante in quanto soggetto economico come quando annuncia la sua autoriduzione, o perfino la rinuncia al potere d’intervento, e l’ideologia della “classe politica” proclama l’apoteosi del libero mercato. Il liberismo o neoliberismo è un complesso di modalità della politica di Stato. D’altra parte, proclamare “più mercato” in condizioni di sempre più accentuata concentrazione dei poteri economici e finanziari e delle relative reti di distribuzione significa un ulteriore rafforzamento di identità monopolizzatrici del mercato, in concreto “antimercato”. L’ideologia della neutralità del mercato è una pura immagine; l’esperienza storica ci insegna che solo la formazione e l’organizzazione di un contropotere economico e politico – basti pensare al movimento operaio occidentale nel 1900, alla rivoluzione russa e anche al ruolo mondiale, pur prevalentemente passivo e deficitario sul piano teorico, dell’Unione Sovietica – possono orientare l’intervento pubblico ad un riequilibrio del meccanismo di mercato e, presumibilmente e sperabilmente, ad un riequilibrio di natura ed economia. Se questa forza non c’è, o attraversa una crisi storica, gli investimenti sbandano verso la spesa militare e la sua crescita continua o verso il superfluo e l’inutile; e se una tale condizione dura a lungo le conseguenze al livello storico-antropologico possono diventare preoccupanti.
Un solco profondo separa a questo punto due concetti di democrazia: quello della partecipazione diretta e cosciente del popolo e quella indiretta e passivizzante del sondaggio dall’alto che preceda, prepari e imponga la decisione dei poteri. La scelta è politica, la politica decide; e alla fine basta il 25% dei voti per legittimare il tutto. Così si spiegano la fame, la miseria, la nuova povertà metropolitana, la diseguaglianza insostenibile tra proprietà miliardaria e morte di massa per fame; e così si spiega come il concorso delle condizioni di base meteorologiche naturali e della politica economico-sociale capitalistico-liberista crei – oltre ad altri fenomeni ormai noti - uragani di inusitata frequenza e intensità e li doti di una forza distruttrice supplementare che mette a nudo quella politica.
Ho fatto cenno alla spesa militare crescente; in concreto essa agisce da lubrificante dell’intera economia statunitense e spiega le dottrine strategiche che poi i politologi spacciano come farina del loro sacco e frutto di coscienze democratiche pensose dei destini del mondo. Asse del male, rogue States, guerra infinita sono i sintagmi dietro i quali sta la proclamata volontà dei neocon di riplasmare la geopolitica mondiale secondo gli interessi americani. Mosche cocchiere ben riuscite, essi hanno trovato un gruppo politico disposto a mettere a soqquadro il mondo con il pretesto di una minaccia terroristica universale alla quale prestano un volto, un nome, una strategia unitaria, un disegno di potenza concorrenziale a quello degli Usa e quindi da debellare. Sul terrorismo come non guerra ma portato della guerra ci siamo più volte espressi ; per non dire che sugli stessi singoli atti di terrorismo il cittadino del mondo, e meno che mai l’americano, sono in grado di avere quelle idee chiare che provengono solo da una documentazione ineccepibile e non manomessa. Sono in gioco appunto i destini del mondo, e l’establishment statunitense spinge in direzione dello scontro tra civiltà e dell’“ultima guerra della storia”, quella che servirebbe a impiantare la perfezionatissima “democrazia” dei consumi (distorti) e del sondaggio in ogni angolo del Pianeta. Negli stessi Stati Uniti sono state e sono numerose le voci di protesta contro le responsabilità dell’amministrazione Bush e le proposte di una svolta interna e internazionale; l’insistenza sul nesso che collega la politica economico-sociale e le guerre esterne è uno dei dati caratterizzanti il dibattito, e forte è la tendenza a trasformare la lezione di New Orleans in movimento sociale e politico. “Molto prima di Katrina, New Orleans è stata colpita da un uragano di povertà, razzismo, disinvestimento, deindustrializzazione e corruzione. […] Ora […] è fondamentale che i progressisti colgano questa opportunità per una ricostruzione in cui vi sia giustizia” – scrive Jordan Flaherty . Michael Moore ha contrapposto al taglio dei fondi e alla mancanza di un’organizzazione di assistenza la pretesa, con relativi giganteschi storni finanziari, di “costruire la democrazia in Iraq” . Secondo Gore Vidal

non abbiamo più una repubblica ma un paese in mano ad una banda di malviventi” che accumula le provocazioni interne a quelle internazionali : “[…] ci troviamo di fronte agli stessi comportamenti in Iraq, agli stessi comportamenti in Afghanistan, e assisteremo agli stessi comportamenti in Iran quando scateneranno anche lì la loro guerra. Sono le malefatte di una congrega di teppisti che non nutrono alcun interesse per il loro paese, ad eccezione naturalmente per pochi super-ricchi .

Lo storico inglese Simon Schama presenta una posizione più articolata. Riferendosi all’11 settembre, egli richiama l’attenzione sulle “enormi differenze tra le due calamità, tra ciò che ci comunicano sull’America, ma soprattutto su coloro che sono alla guida”; la risposta a Katrina, che pure “è stata la catastrofe più prevista della storia americana moderna” è stata “un inganno senza scrupoli”.

Oggi New Orleans è diventata un compendio delle inquietudini che agitano la società statunitense e, sfortunatamente per la supremazia dei conservatori e dei loro miti, simboleggia anche tutto ciò che più fa infuriare i cittadini americani. Sulle paludi della Louisiana, ma anche sull’amministrazione repubblicana, aleggia ormai un debole ma nitido odore di morte.

Schama ricorda l’impegno elettorale di G.W. Bush alla “imparziale e vigile protezione dei suoi cittadini; e così commenta:

Ora l’infondatezza di questa affermazione è stata resa più evidente a tutti, non tanto dalle vicende della lontana Bagdad, ma dalle contee allagate della vicinissima Louisiana. L’assurda fuga dalle responsabilità del presidente – simboleggiata dalla comica e autoassolutoria promessa di guidare un’inchiesta sulle spettacolare fallimento dei soccorsi – sta per essere sommersa da un uragano di ripugnanza, disgusto e rabbia, che covano ormai nel cuore di milioni di cittadini americani .

La nostra scelta di commenti è parziale e partigiana, ma crediamo rifletta fedelmente l’impatto del tragico evento e la sua valenza più profonda. Cerchiamo di trarne alcune conclusioni.

La politica: una crisi irreversibile?
Forse in nessun altro Paese è visibile il nesso organico tra politica interna e politica estera come negli USA; obbligati dal ruolo di guida del mondo capitalistico – ruolo ormai storico, che può infatti essere datato dall’intervento nella seconda guerra mondiale – gli Stati Uniti hanno proceduto, da Truman in poi e con più forte determinazione a partire dalla presidenza Reagan, ad una completa sottoposizione della politica sociale e ambientale a quella imperialistico-mondiale. Scomparso il movimento operaio come autonomo polo politico, nel corso dei decenni è stata resa impraticabile un’alternativa che possa definirsi propriamente “democratica”; le esperienze salienti del partito democratico, le amministrazioni Kennedy e Clinton – non sono state in grado di rovesciare la deriva verso una uniformazione della “classe politica” e della cultura politica americane; il disegno di mantenere una politica interna entro i limiti dello Stato di diritto e del Welfare State mentre veniva riconfermata e perfino rafforzata la condizione di impero mondiale degli USA appare sgretolato dall’enorme potere di schiacciamento della loro funzione internazionale, in un periodo storico che ha visto ridursi fortemente le possibilità di una concorrenza interimperialistica e affermarsi il riconoscimento della loro leadership del sistema capitalistico mondiale.
Al momento attuale una possibilità di cambiamento sul piano internazionale, sia pure graduale, della leadership statunitense e soprattutto della cultura politica. Il dissenso franco-tedesco sulla guerra in Iraq e quello europeo in tema di politica economica sono solo pallide sembianze d’un’alternativa politica che non esiste. Basti pensare all’incapacità propositiva in materia di ONU e al condominio USA-Europa delle organizzazioni economiche internazionali. Dalle grandi Potenze asiatiche può venire – in tempi ormai prevedibili, in ogni caso entro il secolo in corso – una contrapposizione non più fondata su proposte di rivoluzione sociale, e neppure su una strategia ambientale che diventi l’asse di nuovi modelli economico-politici, ma su uno scontro militare tra Stati-guerra. Di fronte alla concretezza e alla gravità dei rischi di perdita del mondo – che anche senza che ci si affidi a modelli matematici inducono a guardare con angoscia al futuro storico – la politica versa in una crisi profonda, per certi aspetti irreversibile.
In questa situazione, quali sono le centralità politiche americane? Esse, maturate diacronicamente ben prima del 2001, hanno però trovato nella distruzione delle Torri Gemelle una conferma e un punto di aggrappo che hanno condotto ad una teorizzazione e pratica dello “stato di eccezione” di cui –- è simbolo la transizione dal primato del politico sul sociale al primato del militare sul politico. G.W. Bush si presenta come Commander in chief of the Army, con tutte le conseguenze sostanziali e formali del caso .
Voglio qui introdurre un’osservazione critica sull’eccellente libro di Agamben ora citato. Lo “stato di eccezione” – scrive l’autore, è il nucleo dell’ “arca” del potere; una “macchina” che “ha continuato a funzionare quasi senza interruzione a partire dalla prima guerra mondiale, attraverso fascismo e nazionalsocialismo, fino ai nostri giorni. Lo stato di eccezione ha anzi raggiunto oggi il suo massimo dispiegamento planetario” . Non poteva meglio definirsi l’attualità del problema giuridico-politico posto dall’a. Ma Agamben non colloca questa deriva politica nelle condizioni specifiche del post-1945, cioè non l’accompagna e non la definisce nell’oggi e nella condizione atomica che coinvolge tutto il mondo, incidendo in modo caratterizzante nei rapporti tra diritto e politica e nell’essenza stessa degli Stati – siano essi (già) atomici o non. Di “Stato atomico” si è parlato molto, ma non potrei indicare una trattazione scientifica e filologica del problema. Quella che Agamben chiama appunto “arca” del potere è la valigetta con chiavi, formule e pulsanti che i capi di Stato si portano appresso anche a tavola o a letto. Il resto, l’americano (ma universale) Patriot Act dell’ottobre 2001, la limitazione dei diritti e il potenziale annichilimento del diritto, la violazione dell’ordine giuridico a tutti i livelli, infine la condizione globale di “guerra infinita”, è concomitante e contestuale. La condizione atomica richiede infatti una dilatazione inaudita dei poteri dello Stato e dello “stato d’eccezione”. Ma appartiene ad una situazione storica che non è più quella del 1914-45, anche se lì sono le sue radici.
Io non credo ad un approccio alla politica estera degli States per tipologie fisse, che discendono dalla filosofia della politica estera condotta dalla fine del secolo XVII in qua da alcuni presidenti e grandi ministri; mi sembra un approccio artificioso, che produce risultati schematici e nsoddisfacenti. Una sorta di scoop, una trovata storiografica che non individua un oggetto preciso, e che non spiega nulla . C’è senza dubbio una continuità imperialistica e non può sfuggire l’enorme crescita del “complesso militare-industriale” e la sua trasformazione di una oligarchia organica e unico . Ma la critica del presente ha bisogno di fatti recenti e presenti; e a mio giudizio è fondamentale l’individuazione del terrorismo come il pilastro d’una prassi politica di intervento ed espansione che era stata preparata di lunga mano dalla elaborazione dei “neoconservatori” e aveva radici nell’esperienza del periodo reaganiano Come abbiamo già detto, il terrorismo è il figlio delle guerre condotte dagli USA e dall’Occidente (e dal giovane e incontinente Israele) nel Medio Oriente e, alla lunga, delle tensioni che da quasi due secoli, e in misura crescente nell’ultimo, l’imperialismo ha esportato nell’area, portandovi, stragi, distruzioni catastrofiche e un vero e proprio deragliamento storico. In più, il terrorismo serve come strumento mediatico dello “stato d’eccezione”, che anticipa l’atto, e spesso ne predice gli obbiettivi e le modalità; che sottopone il cittadino occidentale ai contraccolpi d’una disperazione materiale e culturale d’altra area di civiltà, nella quale lo si trascina ad essere parte perlopiù inconsapevole.
Non stiamo sottovalutando o irridendo, ma non possiamo sottacere né l’enorme pressione esercitata sulla nostra vita né il silenzio che si stende su una guerra che è ancora in corso e che non è stata vinta da chi l’ha inventata. Il terrorismo è una minaccia? Certo, ma Bush e Blair (e, nella pochezza della sua capacità politica, Berlusconi) hanno piazzato nei nostri paesi il magnete che l’attrae. La paura di questi grandi della politica e degli affari è ora la bomba “sporca”, la piccola nuke di qualche chilotone che venga deposta – o sia già presente – a Wall Street o nella metropolitana di una grande città dell’Occidente o in qualche altro luogo che viene suggerito dai “servizi” nel telegiornale dell’ora di cena: perfino a San Pietro. Grandi virtuosi del terrorismo di Stato, quello che schiera eserciti di disoccupati trasformati in supermen da fumetto e tecnologie di guerra e di eccidio che vietano agli altri, essi ora temono le rappresaglie delle loro frange estremistiche, che non arretrano di fronte alla possibilità di ferire nel modo più atroce le società occidentali. La minaccia è quella non solo di un boomerang inaccettabile, ma di una riapertura del capitolo nucleare-militare che l’Occidente non ha veramente mai chiuso. (Nel quadro va compresa anche l’Italia, come Paese nucleare “passivo” che ospita basi aeree e navali con ordigni atomici e si appresta a diventare la principale piattaforma di proiezione nucleare del Mediterraneo verso il Vicino e Medio Oriente. Che farà il centro-sinistra? Che faranno i nostri clintoniani? Che faranno quegli eterni ragazzini che baldanzosamente “ci provano” col sigaro in bocca?).

L’incubo e la realtà della bomba “sporca”
L’incubo della bomba “sporca” grava da anni sulle società occidentali sature di “bombe pulite”, tecnologicamente e politicamente corrette. Ma la cultura ancora e sempre nazionalistica e imperialistica del loro personale politico – imbevuta d’una modernità cruenta e disastrosa – dimostra l’incapacità di mettere al primo posto l’imminenza dei rischi totali e di fare della consapevolezza del trend catastrofico la sostanza di una politica nuova; proprio quella decrepita cultura moderna impedisce loro di rendersi conto che appunto qui noi stiamo fabbricando le bombe “sporche” che esploderanno intorno a noi.
Katrina è la bomba “sporca” dei neocons, del neoliberismo, della “banda di malviventi” e “teppisti” dei quali G.W. Bush è l’espressione; non solo per la politica che essi fanno in Medio Oriente, ma per la loro politica e filosofia globale . L’effetto serra, la temperatura delle acque del golfo del Messico, sono questioni politiche, l’intensità e la forza dei tornados è una questione politica, come lo sono la smobilitazione della Guardia Nazionale, l’inettitudine della Federal Emergency Management Agency (Fema), il taglio dei fondi sociali, il mancato intervento sulla diga; come è questione sociale ancora irrisolta il classismo razziale che non viene certo smentito dalla pacchiana eleganza personale da parvenue della signorina Rice, diventata il sex symbol dell’orrore.
La paura del terrorismo non è che la reintroiezione della proiezione persecutoria e ossessiva enormemente cresciuta dal 1990 in qua verso il mondo arabo-islamico; solo assumendo una posizione autocritica e depressiva l’Occidente potrebbe “vedere” l’altro e lo spazio dell’altro, il suo vero volto, la sua civiltà e il contributo che questa ha dato alla nascita e allo sviluppo dell’Occidente stesso, e quindi i suoi motivi di rancore e i meccanismi di ritorsione. L’acquisizione per via depressiva e autocritica del reale volto dell’altro è la condizione per una presa di coscienza e responsabilità che investa problemi secolari di rapporti tempestosi, la dissennatezza delle guerre e dei pregiudizi religiosi di copertura; che dia luogo ad una nuova elaborazione culturale generale, in particolare politica e biopolitica.
Sarà un lavoro difficile, che dovrà riclassificare sulla realtà attuale del mondo l’anacronismo d’una politica estera ancora orientata lungo la linea che nei secoli ha tempestosamente accompagnato la formazione e lo sviluppo dei grandi Stati-nazione e trascinato il mondo nella sismologia dei loro interessi. Alcuni dei commentatori che abbiamo citato all’inizio accusano con grande forza l’amministrazione attuale; altri non hanno mancato di segnalare aspetti di continuità tra Bush padre, Clinton e Bush figlio. Certamente c’è continuità (del che appunto pare non rendersi conto il nostro centro-sinistra), ma è ancor più serto che mai la cultura politica statunitense ha toccato tali livelli di cieco fanatismo. Per un paradossale e tragico anacronismo, la mente del governo rincorre gli esempi imperiali del passato e un immaginario di eroismo e di estetica militare che ha in G.W. Bush il suo campione. Abbiamo già indicato altre volte il pericolo che per l’intera umanità rappresenta il possesso di armi pantoclastiche da parte di un uomo il cui immaginario, la cui ideologia sono preatomici e preecologici. Al di là del fallimento del capitalismo come sistema mondiale di governo e del fallimento degli USA come alfieri del sistema stesso, ed anzi proprio in ragione di questo duplice fallimento, si aprono orizzonti cupi e si fa più concreta la possibilità che lo “stato di eccezione” globale generi nuove terribili guerre. Alla prospettiva che la crisi capitalistica sbocchi un una generale crisi di civiltà, e alla inaccettabilità di nuove guerre, dedicheremo ampio spazio nei prossimi fascicoli. (luigi cortesi)



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